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Il canto selvaggio di Calibano

DE PROFUNDIS
Il canto selvaggio di Calibano

Testo, interpretazione e regia di Nevio Gambula

Al centro dell’opera-monologo De profundis vi è Calibano, lo schiavo deforme che anima La tempesta di Shakespeare. Catturato dopo essersi ribellato a Prospero, Calibano si trova ora in una cella scavata nella roccia, nel fondo di un crepaccio. A caratterizzare le sue giornate è la condanna che lo costringe a imparare la danza del mamuthone, che nella tradizione sarda rappresenta il prigioniero a cui spetta allietare la festa del carceriere. Nella sua attesa del giorno in cui verrà esposto come trofeo danzante, Calibano avverte il bisogno di parlare ai propri fantasmi, di esporre la propria lacerazione sotto forma di un canto selvaggio, primordiale e assolutamente libero. Quest’opera si pone dunque come canto intenso, urlo viscerale di uno schiavo che descrive, con linguaggio insieme delirante e poetico, le proprie allucinazioni, i propri enigmi, la propria radicale ed estrema differenza. Questo De profundis è, in definitiva, un’opera che torna all’antico tema della dialettica tra dipendenza e indipendenza e alle radici del rito scenico, confermando quella ipotesi di lavoro che vede il teatro come forma di conoscenza e il corpo dell’attore l’unica scena possibile.

Si fa presente che la versione definitiva dell’opera non prevede l’uso del microfono e dell’impianto audio.

Nel Libretto sono compresi, oltre alla scheda e alle note di regia, anche i testi In vocis malevola e Vocazione, che permettono una più accurata presentazione delle istanze personali e poetiche dell’opera.

L'opera è in me e io esisto attraverso l'opera