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Caro Antonin Artaud

Caro Antonin Artaud,

ti scrivo questa lettera per dirti che oggi, nel tempo della pandemia, non è più possibile liberare l’attore e dare vita a un teatro diverso, dove la crudeltà ha un senso augurale. La libertà che volevi infondere tramite la frenesia gratuita dell’attore, oggi non è concepibile, così come oggi, in questo tempo di peste reale, non è più praticabile un teatro in grado di riportarci alle origini del rito, dove attore e spettatore, condividendo la stessa ferita, abbracciano il ritmo vertiginoso del possibile. Non c’è rimedio a questa impossibilità.

Vedi, caro amico mio, la pandemia ha chiuso i teatri e domani, quando li riaprirà, esigerà un nuovo sacrificio dell’attore, costringendolo al vile mercanteggiare e consegnandolo alla falsità dello spettacolo. E l’attore si adeguerà a questo degrado, trasformandosi in un corpo docile e pacificato. Oggi – e ancora più di ieri – il tuo nome sarà solo un ricordo, e la sfida che hai rivolto all’attore sarà accantonata per sempre: per gli attori contemporanei tu sarai solo un fratello lontano che è impazzito cercando la sua utopia teatrale.

Il vero scopo del teatro – dicevi – non è lo spettacolo, ma il trasferimento da un corpo a un altro corpo, e l’attore è il tramite di questo passaggio. Così la recitazione è – lo hai scritto tante volte – una sorta di addio a una vita passata e un’entrata in un’altra vita: una rinascita, ecco che cos’era per te la recitazione. Ed è consacrando la recitazione alla vertigine e alla discordanza che l’attore proclama il risveglio della vita; è facendo della recitazione un atto crudele e barbarico che l’attore cerca – in se stesso e sulla scena – una geografia del futuro.

La tua “ontologia” era fondata sull’investigazione del respiro, del grido, del tumulto sonoro prodotto dal corpo; per questo – dicevi – l’attore deve conquistare la sua voce, farla esplodere, sino a raggiungere un altrove che nessuno è capace di vedere o ascoltare. La voce – dicevi – può smuovere i fondamenti dell’esserci-nel-mondo. Se vuole abitare il teatro e non lo spettacolo, l’attore deve scoprire il piacere d’una voce iniziatica, magica e tribale, in cui le parole «vengono elaborate e pensate nella loro originale potenza segnica e sensitiva». L’attore, se vuole davvero essere teatro, deve conferire alla voce il potere di creare senso, un senso che è potente e magico, che colpisce, coinvolgendolo intensamente, lo spettatore, sino a trasformarlo.

La trasfigurazione dell’attore come impulso per la trasformazione dello spettatore. Era tutta qui, la tua idea di teatro. Un’idea senza futuro. Oggi, amico mio, vince un altro tipo di peste, più subdola, un morbo che non è concime per una nuova vita, ma un modo di annientare la possibilità che possa esistere un altrove del pensiero, un’utopia del corpo, un’eresia dell’attore. E domani, nel tempo post-pandemia, il teatro che riprenderà vita non sarà quello della gratuità immediata che si nutre di atti inutili, bensì lo spettacolo della servitù e della signoria: uno spettacolo disciplinato, obbediente al vincolo dell’economico e ben disposto nei confronti dell’esistente.

Caro Antonin Artaud, la tua idea di teatro non ha futuro, così come non ha futuro la tua idea di attore. Il teatro della crudeltà è rimasto senza attori. D’altra parte, lo spettacolo dell’intrattenimento, che è l’unico autorizzato a esercitarsi, presuppone un attore pacificato, complice e servo.

Tu credevi che l’attore, sfigurandosi in corpo e spirito, e bruciando nel rogo metafisico del teatro, potesse restaurare la vita – tu credevi che l’attore, facendo vibrare le corde del terrore, dello sconcerto e dell’indisciplina, potesse superare le litanie borghesi, il perbenismo delle parrocchie e delle scuole, la retorica del civile o del sociale – tu credevi che l’attore, molto semplicemente, potesse essere solo un attore e non un portaborse del pensiero costituito – ebbene, caro Antonin Artaud, questo attore non esiste più.

Oggi, nel tempo della pandemia, in questo nostro tempo disperato, un attore che obbedisce alla necessità crudele della creazione gridando e correndo dietro le proprie allucinazioni – un attore che fabbrica personaggi braccando la propria sensibilità – e che li fa vivere, i personaggi, in mezzo a un pubblico di cavalieri e di alienati in delirio – un attore che si fa poeta della scena e si affida a un pubblico delirante col furore di chi vuole uccidere il mondo e dare, a quel furore, la forma assoluta del godimento e della critica – ecco, un attore del genere è oggi impossibile, non interessa a nessuno.

Caro Antonin Artaud, la tua idea di teatro è stata sconfitta. E appena i teatri riapriranno un assordante squittio sovrasterà le poche voci degne di attenzione: attori bene educati abiteranno la scena, rendendola ancora una volta un cimitero da rotocalco lautamente finanziato.

Sì, mio caro Antonin Artaud, sei stato sconfitto, e nella tua sconfitta

c’è la mia sconfitta.

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In questo testo sono citate alcune frasi dalle opere di Antonin Artaud, in particolare da “Il teatro e il suo doppio” (Einaudi, 1968). Ho anche inserito due frasi di Maurizio Grande, anche se leggermente modificate.

L'opera è in me e io esisto attraverso l'opera