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De profundis

DE PROFUNDIS
Il canto selvaggio di Calibano

Testo, interpretazione e regia di Nevio Gambula

Al centro dell’opera-monologo De profundis vi è Calibano, lo schiavo deforme che anima La tempesta di Shakespeare. Catturato dopo essersi ribellato a Prospero, Calibano si trova ora in una cella scavata nella roccia, nel fondo di un crepaccio. A caratterizzare le sue giornate è la condanna che lo costringe a imparare la danza del mamuthone, che nella tradizione sarda rappresenta il prigioniero a cui spetta allietare la festa del carceriere. Nella sua attesa del giorno in cui verrà esposto come trofeo danzante, Calibano avverte il bisogno di parlare ai propri fantasmi, di esporre la propria lacerazione sotto forma di un canto selvaggio, primordiale e assolutamente libero. Quest’opera si pone dunque come canto intenso, urlo viscerale di uno schiavo che descrive, con linguaggio insieme delirante e poetico, le proprie allucinazioni, i propri enigmi, la propria radicale ed estrema differenza. Questo De profundis è, in definitiva, un’opera che torna all’antico tema della dialettica tra dipendenza e indipendenza e alle radici del rito scenico, confermando quella ipotesi di lavoro che vede il teatro come forma di conoscenza e il corpo dell’attore l’unica scena possibile.

Si fa presente che la versione definitiva dell’opera non prevede l’uso del microfono e dell’impianto audio.

Nel Libretto sono compresi, oltre alla scheda e alle note di regia, anche i testi In vocis malevola e Vocazione, che permettono una più accurata presentazione delle istanze personali e poetiche dell’opera.

 

A – E allora, cos’è questo tuo De profundis?
B – Nient’altro che un’opera teatrale.
A – Una tra le tante, direi.
B – A dire il vero, un’opera diversissima dalle altre, sotto tutti i punti di vista.
A – Vedremo. Il titolo?
B – Dal profondo, letteralmente; scendere in quell’abisso che è la verità di fondo dell’esistenza: la dialettica tra dipendenza e indipendenza.
A – Ciò che emerge dall’abisso è il punto di vista di Calibano, lo schiavo deforme che anima “La tempesta” di Shakespeare. Un essere infimo.
B – Infimo, proprio.
A – Se ho inteso bene, è un’opera su ciò che la schiavitù significa per lo schiavo.
B – Vi è tuttavia anche altro.
A – Il sottotitolo è Il canto selvaggio di Calibano. Perché proprio selvaggio?
B – Non compiuto, quindi grezzo, ma anche incivile, o primitivo. Ostile, ecco.
A – Chiaro. D’altra parte, l’infamia non può che porsi nella forma bruta della cattiveria.
B – Ricordi Marx? È il lato cattivo a fare la storia …
A – Dunque, chi è Calibano?
B – Uno schiavo ribelle; è un uomo che conosce la felicità di odiare il suo carceriere, senza temerne la frusta; e un prigioniero legato alla roccia, che si rifiuta di collaborare; ed è un attore con delirio d’onnipotenza.
A – E invece, chi è l’attore?
B – Un corpo glorioso che fa scempio di sé; un corpo che cerca, nella trasfigurazione, la sua verità più intima; energia scatenata che rapisce e, al contempo, repelle; leggerezza e minaccia.
A – Anch’esso un’infamia.
B – Oh, sì; e delle peggiori.
A – Mi sovviene una frase di Thomas Bernhard, pronunciata da Minetti: «Il mondo pretende di essere divertito / e invece va turbato […] Il pubblico deve essere terrificato / dall’attore».
B – Un’istanza meta-teatrale che mi appartiene, lo ammetto.
A – Dunque, questo tuo – come dire? – piacere della dissonanza – o forse dovrei dire ossessione?
B – Qualcosa di profondo, cui non manca una certa grazia.
A – E dunque? Nel concreto della scena, intendo; come evidenzi questa istanza?
B – Tornando alle origini del rito scenico, a quella radicale messa in relazione di attore e spettatore.
A – Corpi in relazione, nient’altro.
B – Ho sentito la necessità di azzerare tutto, a favore di una soluzione, per così dire, povera, cioè priva di tutto ciò che non nasce dalla carne, dalla dialettica serrata di parola e voce, di pensiero e fisicità, insomma: dalla presenza irriducibile dell’attore.
A – Non rischi di essere noioso?
B – E perché mai? Alla lunga, vedrai, e intendo nello spazio dei cinquanta minuti dell’opera, l’assolo finirà per trasformarsi in qualcosa di bello, di salutare quasi.
A – Ma non volevi terrificare lo spettatore?
B – Come spiegarlo? Per come è composta, l’opera darà l’impressione del fastidio e del godimento allo stesso tempo – del fastidio legato allo sforzo di entrare nell’allegoria, ad esempio, non certo agevole o familiare, o al percepire di essere messi di fronte a una battaglia tra lingua e voce; e del godimento che viene dall’innegabile bellezza della recitazione, certo frastornante, ma decisamente interessante, oltre che dal fascino del poema, delle parole di cui si compone.
A – Toglimi una curiosità. Perché indossi la maschera del mamuthone sardo?
B – Tagliata all’altezza del naso, però; e di cuoio, anziché di legno … Secondo una recente interpretazione, il mamuthone rappresenta il prigioniero. Nella mia opera, il destino di Calibano è quello di diventare un mamuthone e di essere esposto come trofeo danzante alla festa della vittoria di Prospero.
A – Calibano, insomma, deve partecipare a un rito comunitario, di tipo spettacolare. Una sorta di attore primitivo.
B – Tutta l’opera risente di questa condizione allegorica.
A – Spiegati meglio.
B – Ho composto una sorta di allegoria cupa e notturna, dove la cattiva sorte dello schiavo Calibano suggerisce quella dell’artista nella società dello spettacolo. Entrambi fanno i conti con la sconfitta e con la volontà di resistere, entrambi attraverso l’esposizione della loro irriducibile alterità.
A – Descrivi brevemente l’opera.
B – Un nero poema epico costruito ricorrendo a una miscela esplosiva di invenzioni vocali e di temi narrativi, dove l’attore cerca di alludere, con la propria alterità, a un’altra dimensione umana.
A – Epica … Allegoria … Alterità … Oh, non credi che sia tutto così – come dire? – fuori luogo, ecco.
B – Sconveniente, proprio.
A – E decisamente antieconomico.
B – La mia è un’ossessione, giusto? L’insensatezza fa parte del gioco.
A – Buona partita, allora.
B – Prosit.

 

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