Interessi materiali e genocidio

Dopo mesi di conversazioni – alcune lucide, altre estenuanti – sul perché Israele goda di un sostegno così granitico da parte dell’Occidente, su dove finiscano le ragioni ideologiche e dove comincino quelle materiali, mi sono imbattuto in un testo che ha fatto chiarezza. È stato pubblicato il rapporto Da economia di occupazione a economia di genocidio, redatto dal Relatore Speciale delle Nazioni Unite Francesca Albanese. Un documento denso, durissimo, implacabile.

La tesi è chiara: il progetto coloniale-insediamentale di Israele nei territori palestinesi si è evoluto in un’economia genocida. Non è un’accusa generica: il rapporto mostra come una rete globale di imprese – militari, tecnologiche, energetiche, finanziarie, accademiche, turistiche – tragga profitto dalla cancellazione della vita palestinese, e non solo: vi contribuisce attivamente. A Gaza, ma non solo a Gaza.

Ma ciò che più mi ha colpito è un’assenza. Una parola che non compare nemmeno una volta: sionismo Nessun riferimento all’ideologia fondante del progetto israeliano. Nessun appello a cornici religiose, nazionali o identitarie. Solo fatti. Strutture. Denaro. Responsabilità.

Ed è lì che qualcosa, dentro di me, si è riordinato. Perché il Rapporto non attribuisce le azioni israeliane né il sostegno occidentale al sionismo, ma a un progetto coloniale radicato in logiche economiche e strutture di dominio. Il genocidio – dice, in sostanza – è redditizio. Il sostegno occidentale a Israele non deriva da un’adesione morale, ma da una convenienza strutturale.

Gli elementi chiave del Rapporto sono tre:

  1. Centralità degli interessi economici: una rete capillare di aziende occidentali – grandi nomi della difesa, dell’energia, della finanza, delle università – è integrata nel sistema di apartheid e annientamento. Sono dentro, fino al collo.
  2. Profitto come motore della complicità: non si tratta di mera inerzia o neutralità, ma di partecipazione attiva e consapevole a un’economia genocida. Il Rapporto evidenzia, ad esempio, come i produttori di armi abbiano registrato profitti record dopo l’inizio dell’offensiva israeliana dell’ottobre 2023. Gli investimenti di fondi sovrani e banche occidentali sono cruciali nel finanziare l’economia bellica israeliana.
  3. Complicità sistemica, non congiunturale: il sostegno non è episodico, non è nemmeno solo ideologico. È funzionale a un ordine globale, in cui i diritti si piegano davanti al ritorno sugli investimenti. Dove il genocidio è un asset, non un crimine.

Intendiamoci: il sionismo ha un ruolo – è parte della narrazione, e per alcuni ne è la motivazione ideologica primaria. Ma la matrice del genocidio è più complessa, e le cause materiali pesano, forse più di ogni altro fattore. È una struttura fatta di pratiche economiche, infrastrutture di dominio e complicità istituzionali.

L’assenza del termine “sionismo” nel Rapporto non è neutra: è una scelta concettuale e politica, che ho trovato lucida e, in fondo, necessaria. Perché:

  • Non serve nominare il sionismo per capire il meccanismo. Il Rapporto preferisce concentrarsi su atti con rilevanza giuridica e strutturale: l’apartheid, il capitalismo razziale, la responsabilità delle imprese.
  • Universalizza le responsabilità, mostrando Israele non come un’eccezione, ma come parte di una lunga storia di sfruttamento coloniale e di complicità occidentale.
  • Evita la trappola delle semplificazioni ideologiche, restando aggrappato ai fatti, alle responsabilità e ai nomi. E così facendo, neutralizza le scorciatoie retoriche e le accuse strumentali di antisemitismo.

Alla fine, quello che resta – e brucia – è una consapevolezza: il sostegno a Israele non si spiega con un’adesione ideale, etica o politica, ma con un sistema di interessi materiali che ha fatto del genocidio una forma di business.

Ed è questo, forse, il risultato più terribile: aver reso il genocidio compatibile con l’ordine liberal-democratico, inglobandolo nei suoi circuiti di profitto, nei suoi indici di borsa, nei suoi modelli di crescita. Averlo fatto passare come normale. O addirittura necessario. E così, minare – dall’interno – ciò che di meglio l’Occidente aveva prodotto: l’idea stessa di dignità umana.


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