Non pensare il male diventa la vera radice del male. Così Hannah Arendt. Se non rifletto – ogni giorno – sulle pratiche e le logiche di potere che si manifestano intorno a me, divengo parte di una condizione che ne permette la diffusione. Nulla è più gravido di responsabilità del consenso passivo. Nessun individuo sfugge a questa legge morale.
Il consenso passivo è un fatto culturale. Perché? Perché mina il pensiero critico; perché solleva interrogativi profondi sul rapporto tra individuo e collettività; perché chiama in causa la responsabilità collettiva; perché contraddice lo spirito della partecipazione democratica, indebolendola e compromettendone l’essenza. Perché ci fa dimenticare la nostra partecipazione all’umanità.
Il genocidio dei palestinesi è un evento tragico straordinario. Impossibile non meditarci sopra. Impossibile non considerarlo come un evento che riguarda tutta l’umanità, e dunque ciascuno di noi. Il silenzio, l’omissione, la passività di fronte a tale orrore lo rendono naturale; il genocidio perde allora il suo carattere eccezionale, di evento che sconvolge la coscienza. E quando un evento così estremo diventa estraneo alla coscienza, non resta che la possibilità che si ripeta.
Il genocidio ci obbliga a riflettere sulla nostra appartenenza alla comune umanità . E sulla nostra responsabilità. Se la rimozione del genocidio lo rende replicabile, facendoci perdere quel legame essenziale con la consapevolezza morale e storica che alimenta la democrazia, allora l’urgenza di ogni essere umano – quasi un imperativo etico – diventa quella di pensare il genocidio dei palestinesi: comprenderlo per cercare di fermarlo, coi mezzi e coi modi più coerenti con la propria vita. Una sola domanda dovrebbe guidarci: quali azioni compio per non essere complice?
Il genocidio dei palestinesi riapparirà: in ogni frase che pronunceremo sui diritti umani, sulla violazione del diritto internazionale, sui regimi illiberali; ogni volta che giudicheremo la Russia, per esempio. Il genocidio non è solo un evento storico, ma una maschera di parole che rivela chi siamo davvero agli occhi dell’altro; è il segno più chiaro della nostra moralità e della nostra onestà intellettuale.
Succederà che ogni frase pronunciata su temi di giustizia internazionale assumerà un contorno preciso: il genocidio sarà presente, in filigrana, in ognuna di esse. E farà emergere la misura della nostra tolleranza dell’orrore, quanto la nostra coscienza sia – o meno – in debito con esso. Non verremo chiamati a rispondere davanti a un tribunale, perché non abbiamo commesso atti genocidari. Ma la nostra partecipazione all’umanità sarà misurata proprio da questo: dalla capacità di riconoscere l’orrore, di nominarlo, di opporvisi.
Ogni riflessione morale è già, in sé, un atto politico. Pensare il male, interrogarsi sulla responsabilità, sul consenso passivo, significa prendere posizione nel mondo. Non si tratta solo di giudicare ciò che sta accadendo a Gaza, ma di assumersi un compito: riconoscere i meccanismi che lo rendono possibile e che rendono il nostro paese complice. Ogni volta che scegliamo di vedere, di nominare il genocidio, di non girarci dall’altra parte, interrompiamo una catena di complicità. E in questo gesto, apparentemente intimo, si gioca il senso più profondo della partecipazione democratica.
Resta, sullo sfondo, la domanda su quale azione possa davvero incidere su ciò che sta accadendo. Ma nessuna risposta può venire da un singolo individuo: di fronte a una responsabilità collettiva, solo un’azione collettiva è all’altezza.
Oggi, di fronte al genocidio dei palestinesi, credo sia legittimo e necessario porre sul tavolo la richiesta di sanzioni e della rottura di ogni relazione con Israele. Anche il più piccolo gesto individuale, in questa direzione, può contribuire a orientare le scelte politiche. Ogni presa di parola che rifiuta la neutralità e nomina le cose per ciò che sono contribuisce a costruire un senso comune. Parlare di genocidio, occupazione, crimini di guerra non è solo un atto descrittivo: è un atto politico, che incide sul modo in cui le società comprendono e reagiscono. Ognuno di noi può essere parte attiva di questa narrazione e, di fatto, nodo di una rete collettiva che è essa stessa forma di azione politica.
Questa nota è connessa a:
- [[Illusioni e malintesi]]
- [[Gaza]]
- [[La pace possibile]]
- [[Report Albanese]]