Recitare davanti al microfono è, per me, un atto che provoca un piacere fisico, quasi carnale, talvolta simile a un orgasmo. Cerco di farlo il più spesso possibile — non proprio ogni giorno, ma quasi. Scelgo un brano, accendo la strumentazione e mi lascio invadere dalle parole.
In genere, lo faccio senza alcuno scopo preciso, se non quello di recitare per il puro piacere dell’atto stesso. Altre volte, invece, è un esercizio preparatorio: provo un testo che porterò in scena o registro parti di un’opera radiofonica. In ogni caso, la sensazione è sempre la stessa: una vergogna profonda che lotta con se stessa per trasformarsi in piacere.
A ben pensarci, è la stessa emozione che provo sul palco: un misto di imbarazzo e godimento, di vulnerabilità e potere, che nasce dal porsi davanti a qualcuno — o a qualcosa — e agire. È come mostrare i propri segreti, raccontare qualcosa di intimo, anche se l’unico ascoltatore è il microfono. È come presentare a se stessi il proprio fantasma.
Stamattina, ad esempio, ho registrato alcuni frammenti dell’Erodiade di Stéphane Mallarmé, un testo che amo profondamente. In quel momento non esisteva nient’altro che la mia voce e quei versi torbidi, quasi indecifrabili. Se un senso c’è, è questo: non si interpretano le parole, ci si lascia trascinare da esse. «Tutto accade di scorcio, per ipotesi; si evita il racconto» – scrive Mallarmé.
Di solito parto da un’immagine, e da lì improvviso, seguendo il testo. In questo caso, l’immagine era quella di una donna bellissima, in piedi davanti alla testa mozzata dell’uomo che l’ha respinta: Erodiade e Giovanni il Battista. Tutto ciò che segue è lo scontro tra la mia verità intima e quelle parole, un confronto che trova compimento nella voce.
Qui non si tratta tanto di rappresentare un testo, quanto di trasformarlo in effetto vocale. Il godimento è nell’atto stesso del recitare. Certo, restano gli effetti del testo, una certa corrispondenza tra le parole e la voce. Ma su un piano diverso da quello dell’interpretazione di un personaggio o del pensiero dell’autore.
Recitare, in fondo, è come farsi un autoritratto: un modo di disporre i segni per presentarsi agli altri. Ogni recitazione è, prima di tutto, autoreferenziale; restituisce una parte di chi sta recitando, la sua verità più profonda. Lo fa, naturalmente, in modo complesso.
Potremmo dire che nell’atto della recitazione si intrecciano — si ibridano, si scambiano dialetticamente — diverse dimensioni:
- Le mie caratteristiche personali: il timbro, la fonazione, la gestione dell’energia.
- Il senso — o meglio, i sensi — che il testo evoca, ciò che potremmo chiamare il suo fantasma: quei significati che io, come lettore e interprete, colgo attraverso la mia sensibilità.
- L’effetto che voglio produrre, il tipo di impatto estetico e sensoriale che desidero suscitare nell’ascoltatore.
- Infine, l’universo culturale di riferimento, che comprende anche la mia posizione — poetica, ma pure politica — nei confronti dell’epoca in cui vivo.
Quando mi metto davanti al microfono, vorrei sottrarmi alla tentazione dell’eccesso. Eppure, ogni volta, finisco per cederle, come se solo un grido potesse davvero uscire dalle mie viscere.
Non riesco a fare altrimenti. È per questo, forse, che non potrò mai essere considerato un professionista, ma solo un attore amatoriale: perché mi manca la capacità di adattarmi al testo, di piegarmi a esso. Qualunque cosa reciti, mi sento spinto — o meglio, costretto — a restituirla dentro la mia gabbia sonora, sempre al di qua di qualunque interpretazione.
In me, forse, non abita che una sola voce: la mia.
Il mio amore per l’eccesso, per la tensione del respiro, per la fonazione strozzata e spinta all’estremo, finisce per allontanarmi dall’arte della recitazione. Di fatto, io non recito.
È sempre stato il mio più grande limite: l’impossibilità di aderire davvero a un personaggio, di lasciarlo parlare attraverso di me. Coltivo, per così dire, un’unica modalità espressiva, monolitica, impermeabile a ogni variazione. Più che recitare, balbetto qualcosa che sembra sgorgare direttamente dal mio inconscio, come un’emissione involontaria, viscerale.
Si potrebbe parlare — forse — di “stile personale”, ma anche questo presupporrebbe una scelta consapevole, una capacità di modulazione, di deviazione dal percorso abituale. E invece no: si tratta di una spinta cieca, istintiva, quasi un vizio. Una forza selvaggia che mi trascina sempre verso l’eccesso.
Forse dovrei scrivere un Trattato della cattiva recitazione: un elogio dell’errore, dell’eccesso, del mancato controllo. Un modo per restituire dignità alla mia inadeguatezza.