Guardate questo video. E chiedetevi cosa si nasconde sotto la superficie del visibile.
Le riprese dei droni mostrano l’entità della distruzione nelle città di Jabalia e Beit Hanoun, nel nord della Striscia di Gaza. Dall’alto, l’inquadratura rivela un paesaggio devastato: interi quartieri rasi al suolo, edifici ridotti in macerie, strade impraticabili, tetti sventrati, muri sbriciolati. È una visione che colpisce per la sua ampiezza, e conferma quanto denunciato dalle Nazioni Unite: quasi il 70% degli edifici in tutta Gaza è stato distrutto o gravemente danneggiato dai bombardamenti israeliani.
Ma cosa si nasconde dietro quelle immagini?
Quelle rovine sono i resti di due città abitate, fino a poco tempo fa, da decine di migliaia di persone. Ogni edificio crollato era una casa, una scuola, un negozio, una moschea. Ogni strada, oggi coperta di detriti, era attraversata ogni giorno da vite ordinarie: bambini diretti a scuola, anziani seduti all’ombra, venditori ambulanti, famiglie che cercavano di sopravvivere. Ora tutto questo è sparito. La distruzione che vediamo non è accidentale. È l’esito visibile dell’offensiva militare israeliana: bombardamenti sistematici, incursioni via terra, demolizioni con carri armati e bulldozer.
I segni della devastazione sono troppo estesi e regolari per essere compatibili con l’idea di attacchi mirati contro obiettivi militari. È evidente che non si tratta di “danni collaterali”. La distruzione è il messaggio. L’obiettivo strategico è quello di distruggere tutto ciò che può sostenere la vita quotidiana palestinese: case, infrastrutture, memoria, comunità. Dietro ogni maceria si nasconde una storia cancellata, una vita interrotta, una famiglia dispersa.
Il video non mostra corpi. Non mostra i morti, né i sopravvissuti. Ma ci sono. Sono lì – basta volerli vedere. Basta forzare lo sguardo, e spingerci oltre ciò che viene mostrato. Solo con uno sguardo addomesticato o complice si può davvero credere che ogni edificio di Jabalia o Beit Hanoun fosse una postazione di Hamas. La realtà è che la maggior parte delle vittime sono civili. Che migliaia di bambini hanno perso casa, scuola, genitori. E chi è intellettualmente onesto dovrebbe riconoscere, almeno, che ciò che è accaduto somiglia a una punizione collettiva.
Interrogare ciò che non si vede in quelle immagini significa due cose: da un lato, recuperare la presenza umana che abitava quelle strade; dall’altro, interrogarsi seriamente sui reali obiettivi dell’operazione israeliana. Ricordare che ogni muro abbattuto custodiva una vita quotidiana. E che la distruzione non si esaurisce nei crolli fisici. Le sue conseguenze si estendono nel tempo: traumi psicologici, perdita di identità, ferite che si trasmetteranno per generazioni.
In questo senso, il video è più di un documento visivo. È una prova materiale. Testimonia una volontà distruttiva rivolta non solo contro un gruppo armato, ma contro una popolazione intera. Ci invita, o meglio ci sfida, a guardare in faccia ciò che accade. E a riconoscere che entrare davvero in queste immagini significa nominare, senza ambiguità, ciò che vi si intravede: il tentativo sistematico di annientare, in tutto o in parte, il popolo palestinese.
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