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Il custode del fuoco

Tutta l’opera del poeta palestinese Mahmud Darwish allude a una condizione umana costretta all’esilio e alla sconfitta, alla miseria dell’occupazione militare, al dolore della perdita. Il suo linguaggio poetico è polifonico, talvolta aspro, altre volte sublime, a tratti lancinante. Il custode del fuoco accoglie l’eco di quest’opera e lo traduce in voce, dando compimento a una cantica che si muove tra la disperazione e la resistenza e dove la dimensione privata, personale e lirica, si fonde con quella pubblica, politica ed epica. Il risultato è una sorta di monologo interiore magmatico e struggente, in cui risuonano le parole tratte dai poemi Il giocatore d’azzardo, Murale, Stato d’assedio e dalla prosa autobiografica Andando straniero per il mondo, e in cui la voce, punteggiata e sostenuta dal microfono e dalla colonna sonora, procede verso l’essenzialità del dire, come attraversandone i due gradi estremi: dalla voce che avvolge amorevolmente la parola, trasformata quasi in canto, alla voce che inchioda il dire al significato, alla storia e alle sue contraddizioni. Questo transito nella poesia di Darwish – questo tributo d’attore alla sua scrittura – è dunque un lungo poema vocale che punta a raccogliere la sfida del poeta palestinese: ribellarsi alla forma per cambiare il finale dell’opera. 

In corpore vili

Ormai solo, un corpo «di poco valore» (il corpo vile del titolo) si consuma sulla pista di un circo abbandonato, nelle vesti di un pagliaccio alle prese col delirante tentativo di trovare la propria anima. Tutto ciò che dice è il riflesso di questa ricerca ossessiva, ai limiti della nevrosi; come se una sofferenza interiore lo costringesse a portare sulla pista il suo desiderio di trovare un senso. E sulla pista si sentirà la sua voce cantare Piazzolla e Brecht, mentre le battute che dirà sono tratte soprattutto da Shakespeare (Lady e Sir Macbeth, Riccardo III, Amleto); e poi da Kleist (Pentesilea), Mallarmé (Erodiade), e ancora Muller, Kraus, Beckett. I diversi personaggi richiamati dal pagliaccio confluiscono uno nell’altro, senz’altra logica se non quella che viene dall’urgenza di dire, di esprimersi, di esserci al di là di ogni possibile fallimento. Il suo delirio, privato di ogni inchino alle melenserie dominanti, si compirà nel giro di un’ora, alla fine della quale, chiuso il sipario, il pagliaccio potrà finalmente fare ritorno al proprio nulla.

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Il pagliaccio, indossata la maschera, affronta la solitudine della pista. Maledetto sia il mondo, pensa; e tormentato dal fallimento prende i suoi oggetti di scena e comincia il suo estenuante spettacolo. Egli sa bene, al di qua del sipario, cosa lo aspetta; sente lo sguardo puntuale del pubblico e ne percepisce il respiro. E quello sguardo egli lo sente come imposizione, indegno ad accoglierlo; ciò che vogliono da lui non è quello che lui può dare. Ma tuttavia entrerà in scena, come se quella pista bianca fosse il mondo, l’unico che gli è consentito abitare; entrerà con la sua voglia irriducibile di lanciare la sua ultima maledizione. Qui è la mia verità, si dice; quel cerchio è il luogo dove il trionfo del corpo coincide con la sua caduta. Indifferente all’esito, egli entrerà per esporsi. Rideranno di lui, lo scherniranno, delusi per non aver visto apparire i simulacri che si aspettavano. Ma fino a quando il fiato glielo permetterà, egli non smetterà di offrire la propria anima in pasto a quel pubblico; non smetterà di agire il linguaggio, di indagarlo col corpo, di danzarlo col canto. La scena mi appartiene, dirà entrando; ma io non appartengo alla scena. Incurante del disagio, del proprio come di quello altrui, si spingerà fino all’epilogo, che non sarà consolatorio. E al momento in cui è chiuso il sipario, col corpo ormai esamine, egli dirà: «Non sono altro che un pagliaccio».

L'opera è in me e io esisto attraverso l'opera