Illusioni e malintesi

Tutta la nostra agitazione contro il genocidio rischia di essere un’illusione. A ben vedere, ogni intervento, ogni parola pubblica o privata, si rivela un gesto impotente. Ci illudiamo di poter incrinare il consenso dell’Occidente verso Israele — alcuni arrivano persino a credere che le proprie azioni, soprattutto sui social, possano contribuire a fermare il genocidio in corso. Eppure tutto resta immobile: inalterato, atroce. Un genocidio è, per sua natura, qualcosa di mostruoso, e la nostra reazione appare fondamentalmente inefficace.

L’illusione nasce da un malinteso profondo: crediamo che la storia sia un campo aperto, un processo plasmabile dalla nostra coscienza morale. Ma è la storia a determinare noi, a schiacciarci con la forza delle sue dinamiche implacabili. In gioco non c’è la volontà, ma i rapporti di forza e gli interessi materiali. Facciamo fatica persino a comprendere la complessità geostorica che sta dietro la tragedia del popolo palestinese: come potremmo allora scalfire il meccanismo che ha reso compatibile il genocidio con la democrazia?

Perché, allora, continuiamo a parlare? Perché ci ostiniamo a scrivere, manifestare, condividere, discutere? Forse perché chi vive con angoscia il proprio tempo non può fare altro. Non può che abitare l’illusione, come si abita una stanza chiusa: sapendo che le finestre non si apriranno, ma anche che restare in silenzio significa abbracciare una forma di morte interiore. L’illusione diventa così una forma minima, ma necessaria, di resistenza.

Molti di noi, per antica conoscenza materialistica, sanno che sotto la superficie resistono le contraddizioni. Sappiamo che questo sistema è marcio, irriformabile, e che si avvia verso una catastrofe. Da questa consapevolezza nasce un disagio profondo, che già oggi mobilita — o presto mobiliterà — molti. Ma nemmeno questa lucidità basta a dissolvere il carattere illusorio dell’azione presente: perché oggi è più facile immaginare che le contraddizioni si concludano in una rovina piuttosto che in un progresso.

E allora, davvero: perché continuare a parlare? Forse perché l’illusione è comunque più dignitosa del silenzio. O forse perché, in fondo, non sappiamo fare altro. Eppure, proprio per questo, potrebbe diventare essenziale sviluppare una nuova consapevolezza: restituire alle parole il loro significato autentico. Forse è questa, oggi, l’unica forma di azione politica ancora praticabile: liberare il linguaggio dall’uso distorto che ne fanno politica e media, e riconsegnarlo alla sua forza originaria — quella di nominare la verità.

E tra tutte, una parola esige oggi di essere restituita alla sua verità più nuda e radicale: genocidio. Usarla senza reticenze significa sottrarla alla sacralizzazione esclusiva della Shoah — non come memoria del popolo ebraico, ma come strumento politico attraverso cui le classi dirigenti israeliane, con il consenso complice dell’Occidente, cercano di blindare la propria impunità e di neutralizzare ogni critica. Chiamare le cose con il loro nome è forse l’ultimo atto di libertà che ci resta.