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Minetti di Thomas Bernhard

Provo di continuo, provo tutti i giorni. Tre-quattro ore al giorno di lettura, di articolazione vocale, di recitazione, del tutto slegate da ogni ambito produttivo. Per tenermi in esercizio, per disimparare e imparare di nuovo, per confermare la mia inquietudine – e godere della mia ossessione. Indosso un testo, col dovuto distacco; abbraccio un timbro, e ne faccio un battibecco; abito una grotta, e la trasformo in reggia. Al di là delle contingenze, quelle che mi portano nei pressi di Calibano o di Darwish, mi confronto regolarmente con il Minetti di Thomas Bernhard. Provo questo testo da anni, al di là di ogni buon senso; e sto invecchiando con esso – il gioco talvolta si spegne, ma dura poco, poi riprende il guizzo, la musica, la ferita. Al di là delle difficoltà legate alla produzione e ai diritti d’autore, difficoltà che ne stanno rimandando il debutto, il Minetti sta diventando per me l’unica opera possibile. Tutte le altre opere sono soltanto un prologo – come un lungo e ininterrotto esercizio – che anticipa l’unica opera che ho davvero voglia di recitare e che rappresenta meravigliosamente la condizione dell’attore nel tempo presente.

 

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Tre sono i cardini fondamentali attorno a cui ruota il Minetti di Thomas Bernhard. Il primo è rappresentato dalla vicenda del vecchio attore che decide di tornare, dopo anni di esilio, sul palcoscenico per interpretare il Lear shakespeariano; il secondo passa attraverso l’estenuante «litania di negazioni» con cui l’attore parla di sé, dell’arte della recitazione e della sua avversione al teatro d’intrattenimento; infine il terzo, quello dell’attesa: Minetti aspetta il direttore del teatro di Flensburg, il cui mancato arrivo è il segnale dell’impossibilità di integrarsi nella società. Queste caratteristiche rendono il Minetti l’opera drammaturgica che meglio di ogni altra evidenzia il travaglio dell’attore, sospeso tra la volontà di «terrificare» lo spettatore e la necessità di sedurlo; così come lo rendono un testo che può essere colto nella sua essenza solo se se ne condivide la filosofia di fondo. Quest’opera, infatti, presuppone un interprete che aderisce totalmente al personaggio. I segni esteriori, quelli del testo, possono vibrare efficacemente solo se i segni interiori, quelli dell’attore, si alimentano di quella rivendicazione di alterità che non ammette deroghe e che non può trovare consolazione. E allora recitare il Minetti è agire la diversità che non teme di disattendere il gusto pubblico, ed è un modo di misurare le proprie idee sul teatro, sul lavoro dell’attore, sulla relazione con lo spettatore, ben sapendo che alla fine una tempesta di neve spazzerà via tutto.

Minetti, o dell’impossibilità di essere attore – Saggio e note di regia (file pdf, 205 kb)

[…] La solita storia, dunque; uno spazio convenzionale, un uomo in abiti dismessi, una tempesta glaciale, il suono insidioso d’una voce e qualcuno che la ascolta. Che altro ci può essere? È questo il teatro. Il corpo dell’attore ne occupa il centro: il corpo con la sua umanità ingenua, a volte persino fastidiosa, con la sua struttura psichica e ritmica, col variegato, accanito e attentissimo lavoro su se stesso. Nel teatro il corpo ha finalità espressive, travolge senso e suono, è desiderio e invenzione; è, nel complesso, un corpo poetico. L’attore, infatti, non manca di offrire qualità di poesia: «il sottile piacere dell’enigma svolto in una tendenza verso l’ordine; l’estro del calembour secco; il gioco fine degli echi fonetici e delle rispondenze omofoniche; la rima mentale concreta; i richiami vistosi e ingenui delle coincidenze etimologistiche, delle assonanze del pensiero; l’attrito o la coerenza delle connessioni vocali o ritmiche; la musica intuita e captata nella passione iterativa della parola esemplare» (Emilio Villa). Questo è il teatro, questa sorta di poesia che si svela nel corpo e poi invade tutto il linguaggio. Una volta che ne sei entrato, non ne puoi più uscire. […]

L'opera è in me e io esisto attraverso l'opera